uno sguardo nel buio

Una storia vera

Io sono nel cammino, e più conosco, più scopro quanto non sappia. Voglio restare così: esploratrice, studentessa a vita, offrendo ciò che ho attraversato, ciò che ho trasformato, affinché possa essere utile a chi incontro, a chi amo, e a ogni essere vivente che chiede solo uno sguardo che davvero lo veda.

“Voglio solo partire il più lontano possibile. Ogni tanto guardo i luoghi e i visi di chi abita in quelle zone di mondo e mi chiedo perché io sia ancora qua.”

Questo scrissi circa 15 anni fa nel mio diario di vita. Allora avevo 21 anni, un animo inquieto, desiderio bruciante di cambiare il mondo e una visione egocentrata di tutto.

Non ho una storia particolarmente originale da raccontare; è solamente…una storia.

E poiché mi affascinano le storie, sono curiosa della vita e di ogni cosa essa contenga, la racconto come se fossi di fronte al Mekong, con un tazza di ceramica raku contenente il tè Oolong in mano e a fianco la mia amica Noe, cosa che feci, alcuni anni fa. Pochi frammenti, con la musica che hanno rappresentato per me quei frammenti.

Ricordo che già da bambina, come tanti piccoli esploratori del mistero, scrutavo il cielo con occhi spalancati, certa che tra le nuvole si nascondesse una risposta. Forse una voce, un segno, un richiamo.

“È brava, ma vive nel suo mondo. E lì bisogna lasciarla,” disse la maestra Angela a mia madre. Avevo sette, forse otto anni. E sì, ci vivevo davvero, in quel mondo tutto mio, fatto di giardini animati, di odori che parlavano, di petali mossi dal vento che parevano danzare per me.

Avevo un forte senso di giustizia e una scarsissima inclinazione ad adattarmi. Il mondo, quello degli adulti, sembrava troppo grigio, troppo duro. Il mio era diverso: più vivo, più magico, più vero… dicevo.

Lì ho incontrato anche il mio primo poeta: Lucio Dalla. Non lo capivo ancora del tutto, ma lo sentivo. Come si sente una verità nella pelle, prima che nella testa.

E così, tra sogni a colori, stupori sensoriali e mondi invisibili, ho cominciato la mia ricerca. Che ancora oggi non è finita, perché mai finirà.

Poi cresco. Divento ragazza. Timida, ritrosa. Parlavo solo se serviva.

Le chiacchiere mi stancavano, la socialità mi sembrava un inganno, un modo per sfuggire a qualcosa, mai per incontrarlo davvero.

A me interessavano il vento che piega i rami, il silenzio degli alberi, i fiori che si aprono senza fare rumore. Mi interessavano gli occhi, quelli che parlano, i sogni, quelli che non servono spiegare.

Scelsi Architettura, poi un Master in Architettura d’Interni. Ma mentre studiavo, lavoravo in pasticceria, in cioccolateria. A me interessava sperimentare. Creare. Darmi al 100%.

Immergere le mani nell’argilla e sentire che lì, proprio lì, c’era una forma che voleva nascere. Come con il marmo, il potenziale è già tutto lì, invisibile agli occhi. Lo vedi solo se ascolti la materia, poi lo immagini, poi lo tiri fuori, poi anche gli altri lo vedono.

Lì lo vidi, un uomo, una scogliera, l’Oceano Indiano. Un tramonto pieno, il vento che mi gonfia la maglia, che mi copre il viso coi capelli. Le braccia aperte, il cuore spalancato: “Prendimi, vento. Fammi sentire il mare, il sale, la libertà”. E quegli occhi, gli occhi di quell’uomo che parlavano senza dire una sola parola. Io ero lì, con il corpo, con il cuore, con ogni battito della mente, ma dentro, cercavo.

Cercavo risposte. Ossessivamente e non trovavo pace. Facevo di tutto: lavoravo in studi, in aziende di arredi, cercando ordine fuori, mentre dentro avevo solo domande. E un giorno, senza troppa enfasi, dissi al mio compagno di allora: “Io devo andare. Io devo vedere il mondo, vieni?”.

Non avevo davvero il coraggio, no. Ma il desiderio fu più forte della paura.

E così partii da sola, zaino in spalla, nessun piano, solo un volo per Bangkok, il resto, sarebbe arrivato. Viaggiai, incontrai, camminai, fui accolta, sorpresa, spaventata, ispirata.

Vidi fiumi muoversi nel vento del Laos, ascoltai profumi che parlavano, voci lontane che sembravano canti. Lì, in mezzo al nulla, sentii l’abbondanza. Lì, tutto era perfetto, senza bisogno di niente.

Mi sentii grata, totalmente. Mi dissi: ecco, questo è il senso, è qui.

Non serve altro.

E le risposte? No, non le trovai. Mi piacerebbe raccontare che seduta in meditazione accanto ai monaci, compresi il mistero dell’esistenza. Ma non fu così, arrivarono altre domande, e poi altre, e altre ancora. Ero ancora legata all’idea che la missione si trovava pensando.

E ovviamente, rimasi delusa. Finché qualcosa cambiò. Iniziai a non cercare più, a vivere, a stare, respirare. E per la prima volta, era abbastanza. Cos’altro serve, davvero?

Cos’altro serviva, davvero, oltre quel donarsi semplice in ciò che sapevo fare, o che avrei imparato a fare, come costruire case in bamboo, intrecciando ogni nodo come se fosse una preghiera? Cos’altro poteva servire, oltre al mettersi a disposizione di un villaggio per portare il cibo in cima a una collina, dove il vento parla e la strada è solo polvere e silenzio? Niente.

Eppure dentro iniziò un altro viaggio, più difficile: vivere nel conflitto. Il mondo vero e il mondo finto. Il primo era quello della terra, del riso, dei sorrisi senza orologi. Il secondo, quello delle pretese, delle voci alte e degli obiettivi senza anima. Ovviamente, era la mia verità del momento. Così creai una nuova scatola. Quella del “giusto” e dello “sbagliato”. Ancora una volta, l’illusione prendeva forma. Ancora una volta, mi ingabbiavo per non sorprendermi più, il rifugio sicuro delle certezze.

Però avevo la mia musica, la mia arte, la pittura, la scultura.

Avevo un’energia che si muoveva come un fiume sotterraneo, potente e silenziosa, avevo quella capacità istintiva di comprendere chi avevo davanti solo da uno sguardo, come se le parole fossero un dettaglio superfluo, e avevo qualcosa dentro che sapevo accendere l’entusiasmo anche negli altri.

C’era un’enorme salita e discesa continua di umore, ma iniziavo a vedere, come se qualcosa dentro di me stesse togliendo strato dopo strato una nebbia sottile, e in mezzo a quel disordine emotivo, tra entusiasmi accesi e malinconie improvvise, prendeva forma una chiarezza nuova, una specie di sguardo che non era più solo rivolto fuori, ma iniziava a percepire davvero dentro, nei gesti semplici, nelle intuizioni improvvise, in quel sentire sottile che fino ad allora avevo chiamato confusione e che invece forse era solo vita che voleva emergere.

Per tutto il periodo in Asia svolgevo alcuni mestieri online principalmente legati alla grafica e alla scrittura di articoli, ma avevo anche precedentemente conseguito alcuni titoli nello studio del brand e dello storytelling aziendale. Quando tornai in Italia fu come rinascere in una terra familiare ma sconosciuta, un ricominciare da capo. Portavo con me l’esperienza del viaggio, la sensibilità affinata, la voglia di creare bellezza. Iniziai a cucire insieme tutte le mie competenze: l’architettura e il design, lo storytelling e il branding, la mindfulness.

Era come prendere fili diversi per tessere una trama che parlasse di senso, di identità, di visione. 

Iniziai a pensare che avrei voluto aiutare le persone nel loro processo di creazione, perché sapevo di avere l’energia necessaria per sostenere visioni ancora non nate e l’intuizione per leggere tra le righe di ciò che non veniva detto. 

Sentivo che il lavoro non poteva essere solo “realizzare qualcosa di bello”, ma accompagnare chi lo desiderava a costruire qualcosa di vero, che fosse allineato, coerente, vivo. Aiutare a fare ordine, a scegliere, a tagliare, a radicare. Dare forma all’anima delle cose, che si trattasse di un progetto, di un’identità, di un percorso di vita. 

E perché? Per il bene, per il bello, per il vero. Ognuno ha il proprio e ognuno può tendere a esso.  Vivere per esso, sviluppando la forza e il coraggio, la disciplina, agire per il bene, per vivere quel secondo di esistenza, come quel petalo che cade su un lago e osservare quel millesimo di secondo in cui sta per toccare il pelo dell’acqua, ma in quell’istante è sospeso. 

Certo, feci altri studi. Coaching umanistico, life, executive, corporate, approfondii la linguistica, la comunicazione, frequentai laboratori spirituali che scardinarono ogni certezza, lasciandomi solo l’essenziale: aprire ed espandere. Giorno dopo giorno, aprire ed espandere.

Della spiritualità non parlo, anche se a volte uso parole come “anima” e “spirito”.  Io sono nel cammino, e più conosco, più scopro quanto non sappia. Voglio restare così: esploratrice, studentessa a vita, offrendo con umiltà ciò che ho attraversato, ciò che ho trasformato, affinché possa essere utile a chi incontro, a chi amo, e a ogni essere vivente che chiede solo uno sguardo che davvero lo veda.

Ogni giorno, con occhi nuovi. 

Ogni giorno, varcando i confini invisibili dei miei limiti.

Ogni giorno, amando un po’ di più.

Sabrina

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